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10 REGOLE DI COMPORTAMENTO IN UFFICIO (2)

9 giugno 2017

Qualche anno fa Corinne Meier in "Buongiorno pigrizia" (libro dal significativo sottotitolo: Come sopravvivere in azienda lavorando il meno possibile) sottolineava un aspetto solo apparentemente minore del declino della società occidentale: è inutile darsi da fare tanto il merito non paga. 

Ma il fatto che troppo spesso vinca il più arrogante, il più arrivista, il più spregiudicato (e dopo tutti a dire che è bravissimo/a) dipende anche dal rilievo sociale sempre minore destinato al giudizio sui cattivi comportamenti: "Che vuoi che sia...". E INVECE NO, perché è dal modo in cui trattiamo gli altri che si vede chi siamo davvero. A partire dalle piccole cose.

1) Non si tace al saluto di chicchessia, o peggio, rispondendo al solo saluto del più alto in grado.

2) Non si commentano le notizie del giorno ad alta voce senza aver acquisito il parere altrui (che magari stava lavorando).

3) Non si portano in ufficio i figli piccoli (peggio, i loro amichetti) se non per il tempo indispensabile.

4) Non si dà del "tu" pretendendo il "lei".

5) Non si fanno cazziatoni davanti a terzi (cointeressati o meno alla questione oggetto del rimprovero).

6) Non si va al bagno di un altro piano per essere liberi di lasciarlo in condizioni da stalla di mujiki della Russia bianca (sperando che la colpa ricada su altri colleghi).

7) Non si gioca a freccette appendendo il bersaglio sulla porta dell'ufficio (pericolosissimo, peraltro).

8) Non si mandano sottoposti a pagare le bollette o a cambiare la gomma bucata dell'auto.

9) Non ci si fanno passare i colleghi al telefono dalla segretaria.

10) Non si leggono ad alta voce le proprie poesie o componimenti.

A corollario del dieci, ma il senso è lo stesso, non si obbliga nessuno ad attività comuni extralavorative (la corazzata Kotionkin è sempre e comunque "una cagata pazzesca").

È TORNATO IL PRESIDENTE?

10 aprile 2018

"Riesco a dirle di chiamarmi Ministra?". La satira coglie sempre la direzione delle cose. Nelle feroci imitazioni di Valeria Fedeli, Ministra (o Ministro?) dell'Istruzione, Maurizio Crozza ci pone implicitamente una domanda: ha senso preoccuparsi delle differenze di genere nel linguaggio comune? 

Di certo, tra le modificazioni proposte alla lingua italiana da inglesismi, cyberlinguaggi e politically correct, la declinazione al femminile delle cariche pubbliche è una delle più evidenti e controverse: Sindaca, Assessora, Ministra, Consigliera... Ha senso (pre)occuparsene? Secondo noi sì, ne ha.

Ne ha non dal punto di vista lingustico, evidentemente. Anzi, presa da quel lato la discussione è surreale: "Perché autista e non autisto, allora?". Perché nessun autista vede nella declinazione al maschile dell'attività che svolge il segno della propria emancipazione...

Resta da capire la ragione per la quale si possa dare alla Madre di Dio l'appellativo di "Avvocata" (nostra) mentre in qualche Tribunale di provincia continua a essere consuetudinaria l'ironia Signora Avvocato/Avvocatessa, accompagnata da gran darsi di gomito. Ma forse questo, come si soleva dire, "prova troppo".

In mancanza di "normativa" la diatriba non può che dipanarsi intorno alla volontà del soggetto ("soggetta" no, eh) assurto a una carica qualsiasi da sempre declinata al maschile, che deve poter scegliere come chiamare se stessa. "Il Presidente", "La Presidente". E La Presidenta (come in Argentina)?

Alla Camera Dei deputati la carta intestata della carica amministrativa apicale recita "La Segretaria Generale", mentre quella della sua omologa al Senato non è mai cambiata, era e rimane "Il Segretario Generale". "La Segretario Generale" per entrambe probabilmente avrebbe potuto rappresentare una buona soluzione.

Ora, è vero che l'informazione secondo la quale Laura Boldrini pretendesse di essere chiamata "Presidentessa" è un fake, ma se avesse voluto, sarebbe stato giusto? Forse sì, perché del proprio appellativo la Presidente della Camera aveva dal primo giorno fatto una questione di principio.

La neonata legislatura, comunque sia, è partita nel senso della discontinuità. Maria Elisabetta Alberti Casellati si farà chiamare: "Signor Presidente". La domanda è: cinque anni con "La Presidente" (della Camera) sono entrati nel linguaggio comune tanto da aver reso desueto il maschile? Perché con "Ministro/a" sta (purtroppo) succedendo... 

Vedremo. Per ora, nemmeno l'Accademia della Crusca se l'è sentita di sposare la causa della presunta illiceità dei neologismi cacofonici, e se da un lato ciascuno deve essere libero di farsi chiamare come crede, è anche vero che interpretare la grammatica come battaglia politica forse non aiuta né la politica né l'Italiano.

Come la pensiamo al riguardo sta scritto qui. Non può essere il linguaggio a cambiare le cose, devono essere le cose a cambiare il linguaggio. Rimane il rammarico di constatare che in Italia un po' tutti siamo tentati di risolvere i problemi come quando la Nazionale non segna: basta che i giocatori cantino l'inno.

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