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10 REGOLE DI COMPORTAMENTO IN UFFICIO (2)

9 giugno 2017

Qualche anno fa Corinne Meier in "Buongiorno pigrizia" (libro dal significativo sottotitolo: Come sopravvivere in azienda lavorando il meno possibile) sottolineava un aspetto solo apparentemente minore del declino della società occidentale: è inutile darsi da fare tanto il merito non paga. 

Ma il fatto che troppo spesso vinca il più arrogante, il più arrivista, il più spregiudicato (e dopo tutti a dire che è bravissimo/a) dipende anche dal rilievo sociale sempre minore destinato al giudizio sui cattivi comportamenti: "Che vuoi che sia...". E INVECE NO, perché è dal modo in cui trattiamo gli altri che si vede chi siamo davvero. A partire dalle piccole cose.

1) Non si tace al saluto di chicchessia, o peggio, rispondendo al solo saluto del più alto in grado.

2) Non si commentano le notizie del giorno ad alta voce senza aver acquisito il parere altrui (che magari stava lavorando).

3) Non si portano in ufficio i figli piccoli (peggio, i loro amichetti) se non per il tempo indispensabile.

4) Non si dà del "tu" pretendendo il "lei".

5) Non si fanno cazziatoni davanti a terzi (cointeressati o meno alla questione oggetto del rimprovero).

6) Non si va al bagno di un altro piano per essere liberi di lasciarlo in condizioni da stalla di mujiki della Russia bianca (sperando che la colpa ricada su altri colleghi).

7) Non si gioca a freccette appendendo il bersaglio sulla porta dell'ufficio (pericolosissimo, peraltro).

8) Non si mandano sottoposti a pagare le bollette o a cambiare la gomma bucata dell'auto.

9) Non ci si fanno passare i colleghi al telefono dalla segretaria.

10) Non si leggono ad alta voce le proprie poesie o componimenti.

A corollario del dieci, ma il senso è lo stesso, non si obbliga nessuno ad attività comuni extralavorative (la corazzata Kotionkin è sempre e comunque "una cagata pazzesca").

IL VELO E LA POLITICA

24 marzo 2017

Si può distinguere tra buona educazione e piaggeria? Tra il rispetto per le consuetudini/tradizioni altrui e la rinuncia - variamente mascherata - alla propria dignità nazionale? 

Gennaio 2016: l'Italia accetta la richiesta dell'Iran di non servire vino a tavola perché contrario alla loro religione (nel 1999 Scàlfaro aveva fatto lo stesso), ma il fatto passa sotto silenzio. La decisione di coprire le statue dei musei capitolini viene invece ampiamente censurata dalla stampa.

Disparità di trattamento mediatico per analogo comportamento a parte, c'è da chiedersi: fanno tutti così? Assolutamente no. Nella recente visita in Arabia Saudita nel dicembre scorso della Ministro (o Ministra? I Tedeschi come dicono?) della difesa di Germania, l'aristocraticissima Ursula von der Leyen, i Sauditi hanno consegnato a tutti i componenti femminili della delegazione, giornaliste incluse, un Abaya, ma nessuno lo ha indossato, malgrado gli ospiti si fossero dati molto da fare per renderlo particolarmente elegante. La Signora Ministro e il suo seguito non hanno infranto la legge: la Costituzione dell'Arabia Saudita, agli articoli 1, 23, 45, impone alle donne di velarsi in pubblico lasciando scoperti solo il volto e le mani. Ma l'obbligo è fatto soltanto ai cittadini sauditi.

C'era un precedente. La Ministro dell'economia del Land Baviera, Ilse Aigner, in visita in Iran nel 2015 e nel 2016, aveva espresso analogo rifiuto, accettando solo - proprio per non farla troppo sporca - di appoggiare sul capo un foulard. Ma va detto che in Iran la legge vale anche per le straniere.

Successivamente due episodi di segno opposto.

Da un lato, lo scorso febbraio, una delegazione del governo svedese guidata dal premier Löfven, in larga parte formata da donne (11 su 15): tutte rigorosamente indossavano il velo. Bisogna ammetterlo, era ben grigio vedere le loro foto "castigate" con foulard e cappottoni sfilare sotto lo sguardo compiaciuto degli Ayatollah.

Pochi giorni dopo, il 21 dello stesso mese, un episodio di segno opposto. Marie Le Pen - in corsa per la presidenza francese - pur di non indossare il velo ha cancellato l'incontro con il Gran Muftì del Libano (la più alta autorità  religiosa del paese). "Potete trasmettere i miei ossequi al Gran Mufti, ma io non mi coprirò mai", avrebbe detto.

Evidentemente, la faccenda non appartiene più al bonton, ma alla comunicazione politica: la delegazione svedese è stata criticatissima e la candidata all'Eliseo osannata. Perché le due circostanze si assomigliano in un dettaglio che fa la differenza. Le foto "svedesi" sono state volute e divulgate dagli iraniani; la dichiarazione della francese è stata rilasciata direttamente agli organi di stampa...

E mentre fa discutere la foto che ritrae in un vagone della metro a New York la drag queen accanto ad una signora in niqab, sospesa tra due diverse prospettive di libertà, forse sarebbe utile far propria una delle massime di Kierkegaard: "La grandezza non consiste nell’essere questo o quello, ma nell’essere se stesso, e questo ciascuno può farlo, se vuole", ricordando però che la possibilità di scegliere non ovunque è data.

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